Articolo a cura di Veronica Arcangeli, psicologa e allieva in formazione alla Scuola di specializzazione in psicoterapia sistemica Kairos (terzo anno)
Nelle società contemporanee occidentali, si assiste a un crescente fenomeno di solitudine adolescenziale nei momenti cruciali dei riti di passaggio, tradizionalmente mediati dalla famiglia e dalla comunità.
Questo articolo esplora, da una prospettiva antropologica e psicologica, le possibili conseguenze della progressiva assenza genitoriale e dell’inadeguatezza delle figure adulte di riferimento nel sostenere i passaggi evolutivi dei più giovani.
Più specificatamente, si approfondisce la preoccupante dissoluzione, nella società sempre più materialista, liquida e performativa, delle strutture rituali e relazionali ritenute essenziali nel legittimare l’ingresso dei giovani nell’età adulta e, in particolare, si sostiene che la perdita di contenitori simbolici e affettivi nei momenti di transizione potrebbe favorire l’esposizione degli adolescenti a derive identitarie, vulnerabilità psichica e fenomeni di autoregolazione troppo spesso disfunzionali. In ultima analisi, si riflette sul ruolo del terapeuta come facilitatore di rituali e si propone una riflessione sulla necessità di ripensare il ruolo della famiglia, della scuola e delle istituzioni nel ricostruire e promuovere alleanze generative e dispositivi comunitari di accompagnamento efficaci ed emotivamente adeguati.
L’adolescenza rappresenta una fase cruciale dello sviluppo umano che si colloca tra l’infanzia e l’età adulta, generalmente compresa tra i 12 e i 18-20 anni. Da un punto di vista psicologico, essa costituisce un periodo di profonde trasformazioni cognitive, emotive e sociali, durante il quale l’individuo affronta compiti evolutivi fondamentali legati alla costruzione dell’identità, all’autonomia e alla riorganizzazione dei legami affettivi (Blos, 1962; Palmonari, 1997).
Sul piano cognitivo, secondo la teoria dello sviluppo di Jean Piaget,l’adolescente accede allo stadio delle operazioni formali, che consente il pensiero astratto, ipotetico-deduttivo e metacognitivo, rendendo possibile una riflessione più complessa su sé stessi e sul mondo (Piaget, 1958). Tali trasformazioni cognitive sono accompagnate da una maggiore capacità di autoregolazione, consapevolezza critica e capacità decisionale (Steinberg, 2014).
L’adolescenza rappresenta dunque un momento di transizione denso di significati simbolici, emotivi e sociali e, durante tale periodo, il giovane è tipicamente chiamato a rinegoziare il proprio posto nel mondo, rielaborare le relazioni con le figure genitoriali e a costruirsi un’identità autonoma. Nelle società tradizionali, come mostrano gli studi degli antropologi Arnold van Gennep (1909) e Victor Turner (1969), i riti di passaggio fungevano da strumenti fondamentali di strutturazione e contenimento, offrendo ai giovani un contesto chiaro, necessario ad elaborare i cambiamenti. In particolare, come ha osservato van Gennep in Les Rites de Passage (1909), ogni rito sarebbe un dispositivo strutturante il tempo biografico attraverso tre fasi codificate: separazione, transizione e reintegrazione. In questi momenti, l’individuo attraversa una soglia – limine, nella terminologia ripresa da Victor Turner – che lo sottrae temporaneamente all’ordine sociale per poi restituirvelo trasformato e, pertanto, ogni rito di passaggio, dalla condizione infantile a quella adulta prevedeva la morte simbolica del sé precedente e la nascita del nuovo sé sociale. In Italia, l’antropologo Ernesto De Martino, in particolare ne Il mondo magico e La fine del mondo, sottolinea il ruolo fondamentale dei riti nel contenere la crisi dell’esistenza, concependoli come strumenti simbolici necessari agli individui a “tenersi al mondo” e a difendersi dal rischio della disintegrazione interiore e della “crisi della presenza” nei momenti di rottura esistenziale.
Inoltre, come sottolineano Miguel Benasayag e Gérard Schmit in Le passioni tristi, l’adolescenza e i suoi problemi non esisterebbero in tutte le società, bensì solo in quelle desacralizzate, ove essa occuperebbe il posto dei riti iniziatici e di passaggio tipici delle culture sacralizzate.
Oggigiorno, tuttavia, molti adolescenti si trovano ad affrontare il passaggio all’adolescenza in assenza di riti di transizione e molto spesso in solitudine, deprivati da cornici simboliche condivise e da una regia adulta adeguata in grado di accompagnarli nei momenti di trasformazione e crisi.
L’assenza o l’indebolimento dei riti nella società contemporanea costituisce un problema tanto antropologico quanto psicologico. La modernità liquida, come l’ha definita Zygmunt Bauman, avrebbe sostituito i rituali condivisi con esperienze individuali frammentate, segnando un passaggio dalla comunità al consumo, dalla celebrazione collettiva alla prestazione personale. E, in questa visione del mondo, l’umanità sarebbe rappresentata da individui isolati che intrattengono relazioni contrattuali e competitive, a scapito delle affinità elettive e delle solidarietà familiari o di altra natura (Benasayag & Schmit, 2013).
Anche il filosofo Byung-Chul Han, nel suo saggio La scomparsa dei riti, denuncia la perdita di quelle forme simboliche in grado di conferire significato all’esperienza umana e creare comunità risonanti, ove le persone si connettono per mezzo di esperienze condivise e simboliche, piuttosto che attraverso l’empatia individuale. In questo contesto, la risonanza sostituirebbe la nozione di empatia come meccanismo di coesione sociale, empatia di cui oggi, nella società de-ritualizzata, contaminata da individualismo e isolamento, si invoca – quasi ossessivamente – il valore sociale e terapeutico.
Nella società rituale, infatti, le persone non costituirebbero meri individui che comunicano, ma soggetti che partecipano a una trama simbolica condivisa, fatta di gesti, cerimonie e ritmi comuni. Così, i riti, ripetendosi nel tempo, strutturerebbero l’esperienza umana consentendo agli individui di attraversare pienamente i momenti di crisi e trasformazione (nascite, lutti, passaggi d’età) e fornendo ad essi uno spazio di appartenenza collettiva.
In questo contesto, per gli esseri umani non vi sarebbe alcun bisogno di “mettersi nei panni dell’altro” per comprenderlo, in quanto l’altro sarebbe già parte di un corpo comune, di un campo affettivo e simbolico in grado di risuonare con l’esperienza individuale di ognuno.
Tuttavia, nelle società moderne occidentali, i riti di passaggio risultano spesso soppiantati da surrogati consumistici (il primo smartphone, l’accesso ai social media, il primo tatuaggio, la patente…) sprovvisti della dimensione comunitaria e trasformativa e pertanto, durante l’adolescenza, il bisogno primevo di riti rischia di trovare la sua espressione in pratiche di auto-iniziazione molto spesso disfunzionali e pericolose (comportamenti a rischio, dipendenze, sfide estreme sui social… ) che assumo la forma di “riti individualizzati”, ove il dolore, la trasgressione ed il rischio sostituiscono il contenimento simbolico e sociale.
Secondo la teoria sistemica, ciascun cambiamento individuale si inscrive in un sistema relazionale più ampio: la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari… Tuttavia, la famiglia rappresenta il primissimo contesto in cui si strutturano le regole dei passaggi evolutivi. A tale riguardo, Salvador Minuchin (1974) sostiene l’importanza della rinegoziazione dei confini nei momenti di transizione del ciclo vitale familiare, e lo psichiatra Gregory Bateson (1972) sostenendo come i significati nascano dal contesto e dalla relazione, sottolinea che ambienti familiari caotici non siano in grado di fornire all’adolescente messaggi coerenti sul proprio valore e sul senso del cambiamento.
Così, in assenza di una “cornice” condivisa, la crescita potrebbe prevedere l’emergere di comportamenti auto-ritualizzanti (autolesionismo, dipendenze, challenge estreme), agiti nel tentativo di riempire la mancanza di riti socialmente mediati.
Anche Maurizio Andolfi ritiene che l’assenza dei rituali di separazione e individuazione possa ostacolare lo sviluppo dell’identità; i ragazzi, talvolta, rimangono “bloccati” in un limbo, non più bambini e non ancora adulti e la famiglia è chiamata a facilitare il cambiamento, offrendo spazi adeguati per il riconoscimento del nuovo sé (Andolfi, 2006). In questo quadro, genitori disorientati, emotivamente assenti o perennemente occupati, incapaci di garantire un contesto familiare strutturante e una funzione normativa e affettiva chiare, condannerebbero molto spesso gli adolescenti ad affrontare in solitudine il difficile compito di costruzione di un’identità autonoma.
Miti e letteratura sono ricchi di narrazioni che esplorano il valore trasformativo dei riti come passaggi evolutivi necessari per la vita intrapsichica e relazionale dell’individuo.
Nell’epopea di Gilgamesh, ad esempio, una delle più antiche opere letterarie dell’umanità, il viaggio dell’eroe, successivo alla morte dell’amico Enkidu, rappresenta un rito di passaggio dall’onnipotenza giovanile alla consapevolezza della finitudine e della precarietà della vita; Gilgamesh, infatti, alla fine del suo percorso, non sarà più solo un re, ma un uomo che comprende il senso del limite.
Similmente, nella Divina Commedia di Dante, l’intero viaggio dell’autore attraverso Inferno, Purgatorio e Paradiso può essere letto come un rito trasformativo: è attraverso la guida simbolica di Virgilio, persona saggia e affidabile, che Dante può attraversare la selva oscura (metafora della crisi) e rinascere ad una nuova visione di sé e del mondo.
Il viaggio di Dante, attraverso i tre regni dell’aldilà, potrebbe intendersi pertanto come un’allegoria del percorso interiore di maturazione tipico dell’adolescente, in cui si affrontano paure, tentazioni e domande esistenziali, sino al raggiungimento di una maggiore consapevolezza e identità, proprio come Dante che alla fine del suo viaggio giunge alla visione di Dio nel Paradiso.
Si noti, come sia nel mito di Gilgamesh che nella Divina Commedia, il rito di passaggio verso la maturità è rappresentato attraverso un viaggio simbolico che non può compiersi senza la presenza fondamentale di una guida adulta. In entrambi i casi infatti, dapprima, il protagonista inizia il cammino in una condizione di crisi o immaturità: Gilgamesh è un re giovane, superbo e impetuoso; Dante è smarrito nella “selva oscura”, incapace di trovare la “diritta via”. Ma, successivamente, entrambi incontrano una figura guida che sancisce l’inizio del processo di trasformazione: Enkidu, con la sua umanità e saggezza, insegna a Gilgamesh i limiti dell’essere umano e il valore dell’amicizia e della morte, spingendolo a ricercare un senso più profondo alla vita; Virgilio, invece, che rappresenta la ragione e la conoscenza, conduce Dante nell’Inferno e nel Purgatorio, aiutandolo ad affrontare le sue paure e a riconoscere i suoi errori. In entrambi i casi, il maestro – uno psicoterapeuta ante litteram – non impone risposte, ma accompagna, protegge e apre la strada alla consapevolezza. Così, il rito di passaggio si compie: i protagonisti si trasformano, abbandonando l’immaturità per accedere a una nuova forma di saggezza e responsabilità, proprio come dovrebbe accadere nella crescita reale di ogni adolescente.
Nel lavoro terapeutico, il terapeuta potrebbe assumere la funzione di facilitatore di riti simbolici che possano restituire al giovane e alla sua famiglia la possibilità di significare e attraversare il cambiamento. In tal senso, la stanza di terapia – spazio sacro, protetto e custodito – diverrebbe il luogo in cui sia possibile dar voce ai riti, attraverso la parola, i gesti, l’uso di metafore, di storie, di immagini, fotografie, film…
Il terapeuta, ad esempio, potrebbe accompagnare il giovane nella costruzione di una “mappa del viaggio” adolescenziale che ricalchi il “viaggio dell’eroe” mitico, oppure nella scrittura di una “lettera di separazione” rivolta ai genitori, in cui simbolicamente il giovane definisce ciò che lascia e ciò che porta con sé nel nuovo viaggio verso l’autonomia. Allo stesso scopo, ossia facilitare il passaggio all’età adulta, si potrebbe proporre al giovane lo strumento simbolico dello “zaino”, ideato da Andrea Canevaro, in cui lo zaino rappresenta metaforicamente ciò che ciascun individuo porta con sé nel cammino verso il nuovo sé: valori, ricordi, esperienze, risorse, ma anche fragilità, paure e conflitti irrisolti. Questa operazione simbolica, attraverso attività guidate (come scrivere, disegnare o raccontare simbolicamente gli “oggetti” da mettere nello zaino), consentirebbe al giovane di riflettere sulla propria storia personale e di dare senso alle trasformazioni in atto (Batini & Zaccagnini, 2010).
Anche le sculture familiari, una tecnica terapeutica introdotta dalla psicoterapeuta relazionale Virginia Satir (1972), potrebbero offrire un valido strumento di costruzione di rituali simbolici familiari, intesi come momenti ritualizzati che aiutino a trasformare e consolidare i cambiamenti che occorrono nelle relazioni in famiglia. Infatti, attraverso la rappresentazione corporea e spaziale della propria famiglia – riflesso di ruoli, dinamiche ed emozioni percepite all’interno del sistema familiare – lo strumento potrebbe facilitare il senso di appartenenza e la coesione del gruppo familiare, contribuendo a risolvere eventuali blocchi emotivi e relazionali (Goldenberg &
Goldenberg, 2013), rendendo così possibile e tangibile l’invisibile: relazioni, alleanze, conflitti, distanze emotive tra i membri… Pertanto, l’utilizzo delle sculture familiari attiverebbe un percorso di cambiamento attraverso il linguaggio simbolico e corporeo, permettendo di esplorare e modificare dinamiche spesso difficili da verbalizzare.
Infine, anche il riconoscimento esplicito del figlio – da parte dei genitori – può assumere una forma rituale, ad esempio invitando ciascun membro del nucleo familiare a raccontare e condividere un episodio della vita che abbia sancito un momento di passaggio significativo.
In ogni caso, in tutti gli interventi sopracitati, il terapeuta non intende imporre un rito precostituito, ma co-costruire – insieme al sistema – uno spazio simbolico in cui sia possibile una narrazione condivisa del cambiamento, riconoscendolo e trasformandolo in transizione generativa.
Il recupero di dispositivi simbolici, affettivi e rituali che possano sostenere i percorsi adolescenziali rappresenta oggi una priorità sociale e culturale. Famiglie, scuole, servizi e comunità dovrebbero riappropriarsi della funzione iniziatica e generativa che hanno storicamente assunto.
La chiave potrebbe risiedere in un’alleanza intergenerazionale fondata sulla presenza autentica, sulla narrazione condivisa e sulla ritualizzazione creativa delle tappe evolutive. Come scrive Daniel Siegel (2010), la mente si forma nell’interazione: solo attraverso relazioni significative e coerenti gli adolescenti potranno transitare in modo sano verso la maturità.
Pertanto, occorre ripensare i riti in chiave contemporanea, restituendo all’adolescente il senso del limite, della soglia e della trasformazione.
Più specificatamente, non si tratta di recuperare rituali arcaici, ma di creare spazi simbolici, momenti condivisi che abbiano una valenza trasformativa: cerimonie scolastiche, esperienze di gruppo guidate, narrazioni familiari di passaggio, progetti collettivi con un senso simbolico forte e condiviso. E, in questo quadro, il terapeuta sistemico può fungere da “guida simbolica” esperta e affidabile, accompagnando l’adolescente e la sua famiglia in un processo rituale che riconosca la crescita e ne celebri il significato.
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